XIX domenica del tempo

Il brano di vangelo di questa domenica è tratto – come quello di settimana scorsa – dal discorso che Luca mette in bocca a Gesù nel capitolo 12. Non è la continuazione diretta di quello (in mezzo ci sono i versetti dal 22 al 31 che la liturgia omette), ma la questione è sempre la medesima: da cosa deve essere orientata la vita del discepolo? Cosa dà senso alla vita?

Non l’accumulo dei beni, si diceva nei versetti precedenti, ma la ricerca del regno di Dio.

I versetti odierni proseguono in quella direzione: per comprenderli bene ed evitare fraintendimenti pacchiani è importante non dimenticarsi questa premessa, perché – altrimenti – letti in maniera decontestualizzata – possono dare adito a letture fuorvianti.

Faccio un esempio: se ci si dimentica il discorso complessivo che sta facendo Gesù, si rischia di essere immediatamente colpiti dalle frasi imperative che pronuncia, e tra esse quelle di più immediata comprensione: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina», «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese», «Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Non ci restano impresse infatti frasi come «fatevi borse che non invecchiano» o «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze», perché non capiamo immediatamente cosa vogliano dire: che borse dovremmo farci? come si aspetta un padrone quando torna dalle nozze?

Ecco, il meccanismo è un po’ questo: dimentico il contesto del discorso di Gesù, sento frasi imperative e mi spavento… Mi spavento perché se Dio (in suo figlio) pronuncia frasi imperative, sento di dover corrispondere al suo comando… per paura. Perché se poi non lo faccio, che mi

succede? Cosa penserà di me? E io cosa penserò di me? O se proprio proprio non per paura, almeno per deferenza: se Dio comanda, chi sono io per oppormi?

Insomma il meccanismo è quello di qualcuno di superiore che comanda e di un inferiore che scatta sull’attenti e obbedisce. Gli vengono dette cento cose e lui trattiene quelle che coglie immediatamente: vendere tutto e darlo in elemosina, star svegli e pronti per quando arriverà il controllo del comandante.

Cioè concretamente? Lì iniziano le agitazioni e i sensi di colpa: Dio mi dice di vendere tutto e darlo in elemosina, ma come faccio? Devo proprio vendere tutto? Il sì è impensabile, il no appare come un tradimento (non sono degno di far parte dell’esercito del Signore), le argomentazioni per spiegare il no risultano una vergognosa ipocrisia.

E da qui non si esce tanto facilmente: aiuterebbe forse chiedersi che volto di Dio emerge da questa lettura militaresca e se si tratta di un volto che corrisponde a quello che ci ha fatto conoscere Gesù o piuttosto a quell’immagine spaventevole di lui che abbiamo scritta dentro e contro la quale dovremmo intraprendere la “lotta spirituale”…

Ma quando ti prende l’ansia dell’essere inadeguato agli occhi di Dio è difficile tenere la testa lucida.

C’è però un altro modo…

Continuando a ragionare, infatti, ci si ricorda che c’era un’altra cosa da fare: star svegli e pronti per quando arriverà il Figlio dell’uomo.

Cioè concretamente? Dovremmo star svegli da qui al ritorno di Gesù? O – qualora non tornasse prima della nostra morte – dovremmo star svegli fino alla nostra dipartita?

No, ci verrebbe da rispondere subito. Si tratta di uno stare svegli non fisico. Gesù non vuole dire che non dobbiamo dormire fisicamente finché non moriamo. Usa l’immagine della veglia per dire che sveglia deve rimanere la nostra attenzione, la nostra tensione…

Cosa abbiamo fatto con questo ragionamento? Abbiamo fatto saltare la lettura letterale del testo (che è un principio della Chiesa): la Bibbia non va letta alla lettera, ma va interpretata.

L’assurdità di prendere alla lettera l’imperativo di stare svegli è ciò che ci può tirare fuori dal cortocircuito sul vendere tutti i beni. Lì non riuscivamo a tirarci fuori dalla dinamica “comando – impossibilità dell’esecuzione – senso di colpa – senso di inadeguatezza – paura di Dio – ecc…”, perché la non esecuzione di un comando in teoria possibile e anche praticato (da san Francesco per esempio) diventava immediatamente la certificazione della nostra pochezza.

E invece… guarda un po’… non erano frasi da prendere alla lettera. Erano frasi che procedevano per immagini, iperboli e similitudini per far arrivare all’uditorio un messaggio.

Ma il punto è il messaggio, non le figure retoriche che lo veicolano.

E il messaggio è coerente con quanto Gesù aveva detto nella prima parte del discorso e che noi abbiamo letto domenica scorsa: la vita non dipende da ciò che si possiede; cercate piuttosto il regno di Dio. La prosecuzione di oggi specifica: la costruzione del regno non è un qualcosa di occasionale, che si aggiunge alle altre cose da fare, ma deve diventare il senso dell’esistenza, l’orizzonte in cui si iscrive tutto il nostro agire, pensare, vivere.

Infatti la paraboletta finale va proprio in questa direzione: il discepolo che prende alla lettera i comandi del Signore e li esegue per paura, poi – dopo un po’ – si stufa e agisce secondo la sua mentalità (secondo ciò che sembra giusto a lui, con la logica della prevaricazione e dell’egoismo: «percuotere i servi e le serve, mangiare, bere e ubriacarsi»); quello invece che ha interiorizzato la prospettiva di Gesù e l’ha fatta sua, non agisce più per paura, ma perché ha fatto suo il senso della vita che Gesù proponeva: costruire il regno. In questo orizzonte non ci sono comandi letterali da eseguire, ma un agire da inventare: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così».

Cioè, beato quel servo che il padrone troverà a “dare da mangiare a tempo debito” agli altri (ai figli, agli amici, ai poveretti), incarnando uno dei pilastri del regno (dare da mangiare, appunto). E beato non perché chissà che premio riceve dopo, ma perché il Signore lo troverà felice (beato) di fare quella vita lì.

Letture:

Dal libro della Sapienza (Sap 18,6-9)

La notte [della liberazione] fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te. I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 11,1-2.8-19)

Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare. Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,32-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

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