Il vangelo di questa domenica narra la terza apparizione di Gesù risorto ad alcuni dei suoi discepoli, sette, in particolare: Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.
La scena non è più ambientata a Gerusalemme, dove si erano svolti i fatti della passione, morte e risurrezione.
Siamo in Galilea, «sul mare di Tiberìade».
Sono, dunque, tornati a casa, dove tutto era cominciato. E fanno le cose di sempre: vanno a pescare di notte, quando è più probabile che i pesci abbocchino.
Ma la pesca è infruttuosa: «Quella notte non presero nulla».
Molte domande salgano alla mente: perché sono lì? Perché stanno pescando e non annunciando quanto accaduto a Gesù? Quali sentimenti li abitano? Perché sembra che non sia successo niente? Dove sono gli altri cinque?
Sono domande a cui il vangelo non risponde: forse perché si tratta di silenzi che non vanno riempiti oppure di silenzi che vanno abitati, provando a fornire noi una risposta, dato che sono i medesimi silenzi che a tratti irrompono anche nelle nostre esistenze.
È in un silenzio come questo che Gesù si rende presente, «quando già era l’alba» di un nuovo giorno, di un giorno nuovo.
Immediatamente i discepoli non si accorgono che colui che sta sulla riva è il Signore, ma quando egli apre bocca («Figlioli, non avete nulla da mangiare?») e la sua parola («Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete») si mostra in tutta la sua efficacia («La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci»), qualcuno prende coscienza: «È il Signore!».
Allora «Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare».
Il tuffo di Pietro è l’aspetto che più mi ha colpito di questo brano.
C’è dentro tutto il desiderio dell’incontro, tutto il bene sgualcito eppure autentico che provava per Gesù, tutti i pensieri, i sentimenti, i sensi di colpa che aveva addosso e che noi conosciamo bene, perché sono gli stessi che abbiamo addosso noi.
Appena giunto a riva, la sua attenzione è tutta rivolta al Signore: cosa dirà? Cosa gli dirà? Cosa mi dirà?
«Portate un po’ del pesce che avete preso ora».
Questo invito rompe la tensione: si tratta di una richiesta pratica, che mette in movimento Pietro e gli permette di scaricare su un’attività manuale la trepidazione («Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci»).
L’intermezzo si prolunga in un pasto: «Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce».
Ma – dopo aver mangiato – arriva il momento culminante dell’incontro: Gesù si rivolge direttamente a Pietro con una domanda diretta, «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?».
L’interrogativo è ripetuto per tre volte, pur con alcune varianti.
Per tre volte Pietro risponde affermativamente.
E per tre volte Gesù ribatte con l’invito (anche questo espresso con diverse varianti) a prendersi cura di coloro che compongono la comunità dei credenti e delle credenti.
Gli studiosi e le studiose hanno analizzato – con esiti diversi – il possibile significato delle variazioni che occorrono nelle diverse proposizioni; così come si sono interrogati sul significato della tripla ripetizione del dialogo e dell’appellativo «Simone, figlio di Giovanni» come modo di rivolgersi a Pietro.
Indubbiamente vi è un’eco del triplice rinnegamento, forse anche un velo di ironia rispetto alla baldanza mostrata da Pietro durante l’ultima cena («Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!», Mc 14,29; Mt 26,33).
Tutto questo, però, non offusca il cuore di questa interlocuzione: Gesù – con grande pathos – sta chiedendo a Pietro di rinsaldare il loro rapporto.
È come una supplica accorata a non dimenticare la relazione che li unisce.
A non farlo ora, che si stanno salutando, e a non farlo per tutto il resto dell’esistenza.
Non a caso, il dialogo si conclude con un’allusione alla vita che Pietro ha ancora davanti, in cui Gesù non sarà presente come prima (lo sarà in una modalità diversa).
A Pietro, Gesù sta chiedendo di continuare a vivere sulle sue orme («Seguimi!»).
Credo che questo accorato appello sia rivolto a ciascuno/a di noi.
I vangeli della risurrezione, infatti, vogliono farci ripercorrere la strada che i primi cristiani e le prime cristiane hanno tracciato per accedere alla fede nella risurrezione, cioè a una esistenza contrassegnata dalla presenza assente di Gesù.
Come si vive quando Gesù non è visibile in carne e ossa?
Il vangelo di oggi pare rispondere così: amandolo e continuando a seguirlo.