Il vangelo di questa domenica ci presenta uno dei momenti culminanti della sera dell’arresto di Gesù.
Quando ormai è diventato evidente l’esito che avrà quella nottata – Giuda, infatti, è uscito dal cenacolo e di lì a poco accompagnerà «un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei», Gv 18,3 – Gesù pronuncia un lungo discorso rivolto ai/alle presenti.
In particolare, di questo discorso, nel brano odierno è contenuto il «comandamento nuovo» che egli dà ai suoi e alle sue: «Che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Questo comandamento è “nuovo” non perché si aggiunge ai precedenti (“vecchi”), ma perché è quello definitivo, che riorienta gli altri e ne diventa criterio di interpretazione.
Consiste nell’amarsi reciprocamente: «Gli uni gli altri».
Sembrerebbe quasi una banalità, se non si provasse ad andare oltre la superficie, cosa che invece noi proveremo a fare in un duplice senso.
Innanzitutto, siamo di fronte a un testo (il vangelo) scritto da persone che sono convinte che Gesù sia il Figlio di Dio e che – proprio di questo – vogliono persuadere i loro lettori e le loro lettrici.
Quindi, riportare un invito di Gesù nella forma di un «comandamento nuovo» non può essere inteso come il buon consiglio di un saggio prima di morire, ma come una parola che Dio rivolge all’umanità.
Il contesto è, dunque, “religioso”, rivelativo, teologico più che esortativo, etico, parenetico.
In questo senso, il prosieguo della frase di Gesù è assolutamente inaudito: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri».
Sentendo l’incipit della proposizione – «Come io ho amato voi…» – verrebbe piuttosto naturale proseguire con “così voi amate me”. Il parallelismo sarebbe perfetto e anche in linea con ciò che ci si è sempre aspettati da Dio: ci ama e ci chiede di ri-amarlo, onorarlo, riverirlo, ecc…
Molto della religiosità di tutti i tempi si fonda su questo scambio: cercare di essere graditi a Dio, perché lui sia benevolo con noi.
Qui, invece, il parallelismo salta: Gesù non chiede di essere ri-amato, ma chiede come correlativo al suo amore, che noi ci amiamo tra di noi.
Crolla pertanto l’idea di un dio “vanitoso” che esiste per farsi venerare, per lasciare spazio al volto di un Dio la cui unica preoccupazione è che noi ci amiamo, stiamo bene, ci trattiamo bene, ci prendiamo cura gli uni degli altri, siamo felici.
Questo primo affondo oltre la superficialità ci porta al secondo, che gli è strettamente legato.
Il fatto che la vita cristiana sia amarsi gli uni gli altri, tanto che «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri», non è questione così semplice come sembra.
Spesso “l’amarsi”, il “volersi bene” viene invocato come la cosa più facile del mondo: “Su dai, vogliamoci bene…”; “Dai, chiudiamo la questione e vogliamoci bene…”.
In realtà amarsi (per di più come Lui ci ha amato) è la cosa più complessa del mondo.
Amarsi non è naturale, non viene spontaneo.
E anche con le poche persone con cui lo è (figli/e; innamorati/e; amici/amiche) non si tratta mai di un percorso lineare; nella lunga storia delle nostre vite non possiamo negare che volersi bene è difficile, che ad amare si impara e si re-impara continuamente, che serve, dunque, accettare di non essere capaci, arrivati/e e bisognosi/e di dilatare i confini della nostra interiorità amante.
Il «comandamento nuovo», allora, credo sia un’istanza su cui non possiamo passare via troppo velocemente. Ritengo che debba essere il criterio orientativo della vita dei cristiani e delle cristiane, che continuamente ci chiede di fare un passo ulteriore “nel percorso di apprendimento dell’amare gli altri, le altre come Gesù”.