XXXI Domenica del tempo ordinario (commento)

Gesù è arrivato a Gerusalemme.

Il capitolo 11 si apre con l’ingresso trionfale in cui «molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde tagliate nei campi [e] quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: “Osanna!”».

Ma subito le cose hanno iniziato a prendere un’altra piega: Gesù scaccia i venditori dal tempio, la sua autorità viene contestata, molti (farisei, erodiani, sadducei) lo interrogano «per coglierlo in fallo» …

È in questa atmosfera che gli si avvicina uno degli scribi che – avendo visto che aveva risposto bene nelle discussioni in cui era stato coinvolto – gli domanda: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».

Da come viene descritto il suo approccio e dal prosieguo del racconto, si evince che, stavolta, la domanda non è tendenziosa, non ha lo scopo di mettere in difficoltà l’interlocutore.

Questo scriba ha iniziato a stimare Gesù sentendolo parlare e, quindi, gli pone un interrogativo autentico, una preoccupazione vera: vuole sapere cosa ha da dire questo rabbi su una questione che gli preme: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?», cioè qual è il criterio principale che deve orientare la vita di una persona?

La risposta di Gesù è molto nota: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».

Sono affermazioni tratte dalla Torah, la Legge (la parte fondamentale della Bibbia ebraica che corrisponde al Pentateuco della Bibbia cristiana): la prima è una citazione dello Shemà Israel – uno dei testi cruciali della fede ebraica – contenuto nel libro del Deuteronomio al capitolo 6; il secondo è uno dei versetti del capitolo 19 del libro del Levitico, che fa parte della cosiddetta “Legge di santità”, una lista di prescrizioni che il Signore avrebbe consegnato a Mosè.

Forse è anche per questo motivo che allo scriba piace molto la risposta di Gesù: è in linea con la fede e la tradizione ebraica.

I due, infatti, si lasciano cordialmente: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità» dice lo scriba a Gesù; «Non sei lontano dal regno di Dio» gli risponde quest’ultimo.

Il problema per noi è capire come vanno riempiti di contenuto questi orientamenti di fondo per la vita: cosa vuol dire amare Dio? E cosa significa amare il prossimo?

Se, infatti, è molto chiaro ciò che queste prospettive escludono (per esempio, il disprezzo del prossimo), più difficile è delineare cosa indichino (per esempio, chi è il prossimo).

La modalità per riempirle di concretezza può essere solo una: guardare a come Gesù stesso, nella sua esistenza, le ha incarnate.

In questo modo si vede che “amare Dio” non è fare i sacrifici al tempio («Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto un covo di ladri»), ma piuttosto curare la relazione personale con lui («Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava»). Una relazione personale che diventa il luogo per decidere che passo porre nella vita («Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu»). Una relazione personale che non è chiusa in un “a tu-per-tu”, ma porta a porre un passo nuovo nella vita che è sempre a favore di qualcun/a altro/a, è sempre un passo verso la costruzione del Regno.

L’amore verso Dio non è perciò scollegato dall’amore per il prossimo. Non sono due cassetti diversi a cui attingere.

Guardando a Gesù prende corpo, infatti, anche cosa significhi “amare il prossimo”.

Lo scriba, forse, non è lontano dal Regno di Dio, cioè gli manca ancora un pezzettino, perché quando pensa “prossimo” lo pensa ancora all’interno della sua mentalità: il prossimo è soprattutto l’altro ebreo, maschio, adulto.

Gesù, invece, ha fatto esplodere i confini alla categoria di “prossimo” includendo tutte le persone che ne erano escluse: donne, bambini/e, peccatori e peccatrici, prostitute, pubblicani, malati/e, disabili, stranieri/e…

Riempire di contenuto l’amore al prossimo / alla prossima, guardando alla prassi di Gesù, significa innanzitutto guardare ai limiti che poniamo noi, oggi, a chi intendiamo con prossimo/a nella nostra esistenza.

Poi resta la nostra unicità: cosa concretamente significhi in una data situazione amare quella persona specifica è la sfida della vita di ciascuno/a che con la propria libertà, creatività e personalità deve costruire il modo migliore di amare momento dopo momento, volto dopo volto.

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