Il vangelo di questa domenica ci presenta una parabola di una chiarezza folgorante, che narra di «due uomini che salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano».
Il personaggio del fariseo è colui che incarna coloro che hanno «l’intima presunzione di essere giusti/e» e – di conseguenza – disprezzano gli altri / le altre.
Il pubblicano, invece, rappresenta, quegli altri, quelle altre che sono biasimati/e per la loro condotta morale.
Come è noto, infatti, i farisei erano quel gruppo sociale che, nella Palestina del tempo di Gesù, riteneva che la realizzazione del Regno di Dio si sarebbe compiuta quando tutti i membri del popolo di Israele avessero osservato le norme e i precetti della Torah.
Si sforzavano dunque di essere irreprensibili (anche se a volte in maniera legalistica, tanto da essere spesso appellati come “ipocriti”, “sepolcri imbiancati”) per vedere finalmente realizzato il Regno.
I pubblicani, invece, erano membri del popolo di Israele che raccoglieva le tasse per conto dei Romani e che, spesso, in questa loro attività frodavano la gente, aggiungendo una quota al dovuto per intascarsela.
Essi non erano, dunque, dei poverini annoverabili nella categoria – cantata da De André – di coloro che vuotano «in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato» [Il testamento di Tito]. Non sono la gente verso cui «c’hanno insegnato la meraviglia» perché «ruba il pane»; e rispetto alla quale «ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame» [Nella mia ora di libertà].
Anzi, sono persone che si approfittano della gente che sta peggio.
Sottolineo questo perché – altrimenti – diventa difficile comprendere il senso della parabola.
I due personaggi non stanno a rappresentare i “ricchi perbenisti” (i farisei) da una parte e i “poveretti disprezzati” (i pubblicani) dall’altra.
La dicotomia sta tra chi (pur con tutte le contraddizioni e le incoerenze) cerca di osservare le norme morali del suo popolo e chi, invece, opera per il proprio interesse a scapito delle altre persone.
È importante capire questo perché la parabola è costruita proprio perché nel lettore (noi) scatti l’identificazione con il primo gruppo e non con il secondo.
Se questa identificazione non scatta, la parabola non sortisce il suo effetto (convertirci).
Se, infatti, alla fine della lettura l’esito è quello di biasimare il fariseo, senza renderci conto che quel fariseo rappresenta noi, ci ritroveremmo nella sua medesima posizione di partenza: avere «l’intima presunzione di essere giusti/e» (non come il fariseo) e disprezzarlo.
La parabola, invece, funziona se ci rendiamo conto che siamo noi (e non gli altri / le altre) le persone che hanno «l’intima presunzione di essere giuste».
Questa forma narrativa raggiunge, infatti, il suo scopo se scatta l’identificazione. Ne è un chiaro esempio la parabola che Natan raccontò al re Davide: «Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse: “Due uomini erano nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero, mentre il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia. Un viandante arrivò dall’uomo ricco e questi, evitando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da lui, prese la pecorella di quell’uomo povero e la servì all’uomo che era venuto da lui”. Davide si adirò contro quell’uomo e disse a Natan: “Per la vita del Signore, chi ha fatto questo è degno di morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata”. 7Allora Natan disse a Davide: “Tu sei quell’uomo!”» (2Sam 12,1-7). Davide, infatti, aveva preso la moglie di Urìa, facendo in modo che questo morisse in battaglia.
La conversione a cui la parabola ci conduce è perciò quella di prendere coscienza che nessun essere umano (nemmeno noi) è pienamente giusto. Solo Dio lo è. Noi esseri umani possiamo (e dobbiamo) tendere a diventare sempre più giusti, ma – proprio poiché siamo creature e non siamo noi Dio – saremo sempre segnati da imperfezione.
Verso di essa dobbiamo sviluppare sentimenti di dolcezza, comprensione, accudimento cercando di aggiungere il bene là dove ancora manca.
Questo atteggiamento verso noi stessi/e ci permetterà anche di essere ugualmente dolci, comprensivi e accudenti verso gli altri e non disprezzarli.