Ascensione (commento) – Accompagnare Gesù all’aeroporto

Eccoci giunti anche quest’anno all’Ascensione.

Ciò di cui si tenta di dar conto, con questa celebrazione, è il fatto che Gesù non sia più incontrabile, né nella forma storica (in carne e ossa), né come risorto.

In queste settimane dal Triduo in avanti, abbiamo potuto leggere brani di vangelo che ci narravano le relazioni che Gesù ha avuto da vivo, il rapporto che le sue e i suoi hanno avuto col suo corpo morto, gli incontri con il risorto.

Ma ad un certo punto, tutto questo è finito.

Da un certo punto, incontrare Gesù è possibile solo seguendo altre modalità: non possiamo avere a che fare con lui come quando era vivo, non abbiamo tra le mani il suo cadavere (da onorare) e non abbiamo sue apparizioni.

L’Ascensione nasce come spiegazione di questa nuova realtà: da un certo punto in poi, nessuno ha più potuto incontrare Gesù nelle modalità che prima erano state possibili.

Come si fa, allora, da quel momento in avanti (e anche oggi) a incontrare Gesù?

Di questa domanda si fa carico il racconto di Pentecoste, di cui parleremo la settimana prossima.

Oggi, con l’Ascensione, non possiamo che soffermarci un attimo (senza scappare subito in avanti alla “soluzione”) sul problema.

Perché il fatto che Gesù non fosse (e non sia) più incontrabile nelle modalità precedenti è un problema.

Un problema così grosso, che molti ritengono che la verità sia – semplicemente – che Gesù non è più incontrabile: è morto.

Per i cristiani non è così, ma, se si vuole essere cristiani seri, non si può far finta che il problema non esista. Anche nel vangelo di oggi è raccontata la fatica degli apostoli stessi: «Dubitarono».

L’Ascensione, infatti, prima di aprirsi alle risposte della Pentecoste, è come un secondo lutto, un secondo addio… una sorta di orfanità con cui la prima comunità credente (e con lei tutte le altre) si è trovata a dover fare i conti.

Il racconto degli Atti degli apostoli (la prima lettura di oggi) rende bene questa situazione: «Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”».

È un po’ come quando accompagniamo qualcuno all’aeroporto e poi stiamo a guardare l’aereo che se ne va e sparisce. Se chi parte, lo fa per un lungo viaggio, la sensazione che proviamo è quella di sentirci soli (e abbandonati).

So che l’immagine è un po’ grossolana, ma credo che riesca a rendere bene l’idea di come si sono sentiti gli apostoli e di come ci sentiamo noi ogni volta che guardiamo il cielo – che resta muto.

Eppure…

L’unico modo con cui davvero si rende qualcuno/a adulto/a, è quello di lasciarlo/a. I nostri figli e le nostre figlie imparano a camminare (o ad andare in biciletta) quando noi stacchiamo la mano… I ragazzi e le ragazze imparano a occuparsi di loro stessi/e quando noi iniziamo a fare passi indietro… finché arriva il momento in cui li lasciamo (in un’altra casa, in un’altra città, in un’altra parte di mondo) …

Anche nel rapporto col Signore non può che essere così: il suo lasciarci è la chiamata alla nostra adultità.

L’Ascensione, dunque, seppur ci parla di una partenza che ci fa sentire orfani, ci parla anche di un’assunzione di responsabilità: Dio ci ha considerati capaci di fare (e di farci) senza di Lui.

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