III Domenica di quaresima (commento) – Se Dio intervenisse…

Il vangelo di questa domenica prende spunto da due fatti di cronaca che probabilmente avevano suscitato scalpore: l’uccisione da parte di Pilato di alcuni Galilei che avevano compiuto dei sacrifici e la sorte di altri Galilei morti sotto al crollo della torre di Siloe.

L’interpretazione che veniva data a questi fatti era che la loro triste sorte fosse legata al peccato.

Detto brutalmente: se ti capita qualcosa di male è perché te lo sei meritato.

Gesù interviene duramente a contestare questa interpretazione: il male che ci capita non è una punizione.

La presa di posizione di Gesù non vale solo per i Galilei di allora.

Anche nella nostra mentalità permane l’atavico sospetto che ci sia un legame tra tragedia e peccato.

Tutte le volte che diciamo “Perché mi è capitato questo?”, “Perché proprio a me?”, “Era una così brava persona, perché le è successo questo?”, stiamo in qualche modo rilanciando la medesima mentalità di allora.

L’ingiustizia suscita giustamente una contestazione e quando non c’è qualcuno da incolpare, chiamiamo in causa Dio.

Avendo però paura di Lui, ci rispondiamo che se Dio l’ha voluto, un motivo ci deve essere e quel motivo non può che essere il peccato (della persona che subisce la tragedia o di chi per lui: genitori – «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?», Gv 9,2 –, la società corrotta, l’umanità cattiva).

L’intento di Gesù è rompere questa consequenzialità: Dio non causa il male, nemmeno come risposta al male degli esseri umani.

Per chiarire ulteriormente il concetto, introduce la parabola del fico che non dà frutti e che il padrone vorrebbe, per questo tagliare: il padrone rappresenta la nostra mentalità (il male che ti capita è la risposta al male che fai). In quella storia però interviene un secondo personaggio, il vignaiolo, che rappresenta invece la mentalità di Dio-Gesù: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime».

La risposta al male che Gesù propone, non è il male, ma la cura.

Questo vangelo non dà le risposte a tutte le domande circa il male che abbiamo nel cuore: non ci dice da dove venga il male, ma afferma con chiarezza (come del resto fa tutto il vangelo) che non viene da Dio.

Questo “vuoto di risposta” ha scatenato il bisogno di riempire quel vuoto, così che si è sviluppata l’idea di una personificazione del male nella figura del diavolo, che ha raggiunto la posizione di un dio-del-male accanto a un dio-del-bene (posizione che la Chiesa ha condannato come eretica), oppure quella – più secolarizzata – del caso: il male colpisce a caso le persone.

La questione interroga l’umanità fin dai suoi albori e continua a interpellare anche noi: la risposta che a me pare più convincente (perché tiene insieme ciò che dice il vangelo riguardo a Dio e l’esercizio della ragione) è che il male che ci capita – sia che sia ascrivibile alle scelte delle persone (guerre, ingiustizie sociali, povertà, discriminazioni, ecc…), sia che resti senza una causa umana (un incidente, una malattia, un terremoto, ecc…) è ascrivibile alla scelta originaria di Dio di lasciare libera la sua creazione, di lasciarle seguire il suo corso (che è fatto anche di errori: non ci saremmo senza errori, mutazioni genetiche che da un brodo primordiale hanno portato fino alla formazione degli esseri umani), senza intervenire.

Se Dio intervenisse nella storia, nella natura, nella materia (nelle cause seconde per dirla alla san Tommaso d’Aquino), il mondo cesserebbe di esistere.

È su un altro livello che può darsi il contatto con Dio: quello che il Nuovo Testamento chiama spirito (spirito di Dio e spirito dell’uomo) e che potremmo ritradurre, in termini più vicini al nostro gergo, con “interiorità”.

È lì che deve raggiungerci un’altra parola contenuta nel vangelo di oggi: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Sembrano parole in contraddizione con quanto detto prima: se il male che ci capita non è una punizione, cioè se è rotto il legame peccato-disgrazia, perché e di cosa dovremmo convertirci per non morire?

Io penso così: se non cambiamo mentalità (se non ci convertiamo) passando dalla nostra idea di disgrazia inflitta da Dio all’idea che Dio non punisce mai (nemmeno chi se lo merita), moriremo, cioè si estinguerà la possibilità di incontrare in spirito il vero Dio, il vero volto di Dio, perché continueremo a pensarlo sempre e solo come un possibile castigatore e dunque a relazionarci con lui senza mai aver radicalmente estirpato la paura nei suoi confronti.

E dove c’è paura dell’altro, non può esserci amore, né vita.

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