IV Domenica del tempo ordinario (commento) – Invidia e smarcamento

Il vangelo di questa domenica è la diretta continuazione di quello di settimana scorsa.

Gesù nella sinagoga di Nazareth aveva letto il rotolo del profeta Isaia (con qualche variazione), pronunciando – secondo l’evangelista Luca – queste parole: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».

Al termina aveva esclamato: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Il suo intervento suscita stupore, perché tutti a Nazareth sapevano che lui era «il figlio di Giuseppe» e, sebbene le parole di Gesù fossero un vangelo, un lieto messaggio, l’annuncio di qualcosa di bello, la meraviglia gira velocemente in aggressività e violenza.

Perché?

Le risposte suggerite dal testo sono diverse.

Innanzitutto, quella che Gesù stesso dà all’interno del testo, così famosa da essere diventata proverbiale: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria».

È una dinamica molto nota: i compaesani di persone che eccellono, tendenzialmente reagiscono provando un’iniziale ammirazione, che però si tramuta in invidia (perché lui/lei sì e io no, sebbene siamo cresciuti nello stesso posto?), a cui segue un tentativo di screditamento (chi si crede di essere? Non è poi che faccia chissà cosa… ecc…) o addirittura di distruzione (il suo successo è così insopportabile – dato che fa risaltare la mia mediocrità – da volerlo togliere di mezzo).

È la tipica incapacità di gioire per le cose belle che capitano agli altri, propria delle persone che non sono contente di se stesse. Non ammettendo la propria insoddisfazione (che porterebbe a una presa di coscienza e a un itinerario di cambiamento), vedono nel bene altrui, qualcosa di tolto a loro, un’ingiustizia. Sono quelle persone di cui Guccini cantava che si sentono “eterne vittime di un sopruso”.

Eppure, sebbene tutto questo traspaia dal brano odierno, in esso è rintracciabile anche una seconda risposta alla domanda perché la meraviglia dei nazaretani giri velocemente in aggressività e violenza.

A ben guardare infatti, Gesù dice qualcosa che alle loro orecchie risulta provocatorio: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».

Non sono i suoi compaesani a chiedergli di fare a Nazareth quello che aveva compiuto a Cafarnao, ma è lui a esplicitare quella che forse era una loro silente richiesta. Come se dicesse: “Vorreste che facessi anche qui i segni che ho compiuto altrove…”. Ma – e questa è la continuazione che risulta inaccettabile per gli altri – “Non li farò”: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

Gesù non solo sta dicendo che non farà i prodigi che altri gli hanno visto fare, ma che questa è una dinamica insita nella storia della salvezza. I profeti (Elia ed Eliseo) hanno soccorso persone straniere, non loro connazionali… nemmeno loro correligionari: hanno aiutato non ebrei.

È a questo punto che si scatena la violenza: «All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù».

All’invidia per non essere “come lui” si aggiunge l’irritazione perché il suo essere speciale “non è solo per noi”.

Chi era disposto a non odiarlo per invidia, pensando che comunque quella persona speciale potesse tornargli utile, poteva essere usata per i proprio interessi, riceve una delusione.

Gesù si smarca dalle logiche dell’appartenenza familiare, di clan, di paese.

Non è a disposizione di chi vuole “usarlo” a proprio vantaggio.

Questo smarcarsi di Gesù è mostrato in maniera plastica dall’immagine finale: «Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino».

All’inizio della sua vita pubblica Gesù ha bisogno di segnare una distanza, di mettere in chiaro che il suo agire non è invischiato in logiche di appartenenza: vuole essere libero, libero di essere per tutti.

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