IV domenica del tempo ordinario

Il vangelo di questa settimana è la continuazione di quello di settimana scorsa. Avevamo lasciato la scena in sospeso, con Gesù che dopo aver letto a modo suo una parte del rotolo del profeta Isaia, aveva commentato: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

La suspense era legata alla domanda su come avrebbero reagito i suoi compaesani nel vederlo ritornare, proporre una lettura innovativa del testo biblico e soprattutto nel presentarsi come compimento delle promesse anticotestamentarie.

Ci eravamo detti di provare, in questa settimana di attesa, a pensare a come avremmo reagito noi se qualcuno del nostro paese o del nostro quartiere fosse tornato dopo un periodo altrove a parlarci di Dio, a parlarcene diversamente da come ne avevamo sempre sentito parlare, diversamente anche da quanto avevamo insegnato a lui, da ragazzo, in seno alla comunità.

E soprattutto ci eravamo detti di provare a pensare a come avremmo reagito se qualcuno del nostro paese o del nostro quartiere fosse venuto a dirci, magari al rientro da un periodo di assenza dedicato ad una ricerca religiosa, che in lui si compiva la Scrittura, cioè che Dio ce lo aveva «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».

Con tutta la buona volontà e pur con la fortuna del “senno di poi”, credo che onestamente tutti avremmo fatto fatica a dargli credito. In fin dei conti, anche a noi sarebbe venuto da dire: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».

La fatica degli abitanti di Nazareth (e la nostra) sta proprio in questo: riconoscere come nella normalità della vita possa sbocciare qualcosa di così determinante, significativo, decisivo.

Se ci pensiamo è la stessa fatica che i cristiani hanno sempre fatto nel credere davvero all’incarnazione di Gesù: da subito e ancora oggi si sente il bisogno di spiegare la sua esistenza introducendo elementi straordinari, magici, eccezionali.

In questa occasione infatti ciò che dà fastidio non è il contenuto di quello che Gesù dice (come invece in altre occasione accadrà). Il problema non è quello che dice (anzi, inizialmente i suoi compaesani «gli davano testimonianza ed erano meravigliati» nel sentirlo parlare di un Dio che porta un lieto annuncio ai poveri, che libera i prigionieri, che ridà la vista ai ciechi e rimette in libertà gli oppressi). Il problema è che sia proprio lui a dirlo, cioè il figlio del falegname, una persona come noi, normale.

Perché è questo che fa problema?

Perché se è uno di noi, uno come noi, ci viene da pensare che forse avremmo potuto essere noi a dire quelle cose. La nostra si chiama invidia.

Allontanarlo dalla nostra condizione è funzionale infatti a giustificarci: lui era di più, lui ha avuto di più, lui ha avuto possibilità che io non ho avuto, per questo è stato così bravo… Ma, a parità di opportunità, avrei potuto essere io al suo posto.

È questo che ci infastidisce dell’estrazione umana di Gesù e che ci porta continuamente a ridimensionarla?

Invidiamo la sua esistenza, la sua grandezza e ci giustifichiamo dicendo che d’altronde lui era Dio, tradendo così il senso della sua incarnazione. In questo modo ci autoassolviamo sul non essere come lui e sul fatto che nemmeno ci proveremo: non siamo mica Dio noi.

Così, invece che apprezzare la sua grandezza e provare a conformarci ad essa, ci accontentiamo di tirare a campare.

Letture

Dal libro del profeta Geremìa (Ger 1,4-5.17-19)

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,31-13,13)

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 4,21-30)

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

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