Le beatitudini (commento al vangelo della IV Domenica del tempo ordinario)

Il vangelo di Matteo è scritto per una comunità cristiana di origine giudaica.

Ciò vuol dire che i cristiani di quella Chiesa erano ebrei che avevano creduto all’annuncio apostolico e si erano fatti battezzare.

Essi, però, vivevano in un contesto in cui la maggior parte degli ebrei non aveva accolto la nuova fede.

Ecco perché l’evangelista, nello scrivere il suo vangelo, vuole rassicurarli sul fatto che abbiano fatto la scelta giusta, cioè sul fatto che credere a Gesù sia stato dare compimento alle attese messianiche del popolo eletto.

Per far questo, Matteo costruisce la sua narrazione presentando Gesù come il nuovo Mosè.

Non a caso il primo discorso che l’evangelista fa pronunciare al protagonista della sua opera è collocato su un monte (e infatti si chiama “Discorso della montagna”): come Mosè sul Sinai ricevette le tavole della legge con i dieci comandamenti, Gesù sul monte insegna la nuova legge.

Questo discorso è molto lungo (copre tutto il capitolo 5, il 6 e il 7) ed è collocato subito dopo la presentazione generale ascoltata domenica scorsa.

L’introduzione è quella riportata nella liturgia odierna: «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli».

Non dobbiamo pensare che Gesù abbia detto tutte queste cose, tutte insieme, tutte nello stesso momento. Si tratta di una raccolta di suoi detti fatta dall’evangelista e riorganizzati in forma discorsiva.

Ciò che a noi oggi interessa è l’avvio di questo discorso, e cioè le beatitudini, che definirei un inno alla vulnerabilità.

Tutte le categorie di cui si dice che sono “beate”, infatti, sono composte da soggetti in qualche modo feribili: i poveri in spirito versus i ricchi di spirito, quelli che sono nel pianto versus quelli che non hanno motivi per piangere, i miti versus gli aggressivi, quelli che hanno fame e sete di giustizia (perché – se ne hanno fame e sete – non ce l’hanno), i misericordiosi perché hanno qualcosa da perdonare a qualcun altro (che gli ha fatto del male), i puri di cuori versus quelli che non danno spazio alle ragioni del cuore, gli operatori di pace (perché se operano per la pace è perché la pace non c’è), i perseguitati a causa della giustizia versus coloro che fanno ingiustizie…

Forse Gesù, «vedendo le folle», aveva visto persone di queste tipo, abituate a subire soprusi, a vivere di stenti, a tentare di costruire pezzetti di vita buona in un mare di fatica…

Chiamare questi “beati” voleva dire cambiare radicalmente la mentalità corrente (di allora e di oggi), quella che considera “beati” i forti, i vincenti, i ricchi, i riusciti… Voleva dire cambiare radicalmente i parametri con cui giudicare della vita delle persone, della nostra vita… Voleva dire considerare la vulnerabilità non un minus ma un plus.

Essa, infatti, ci restituisce la nostra vera condizione di umani: essere umano vuol dire essere vulnerabile.

Dire che Dio ama la nostra vulnerabilità, vuol dire che ci ama tutti/e (chi non è vulnerabile?) e che non bisogna superare chissà quale prova di forza o non bisogna raggiungere chissà quale livello di ricchezza e successo per essere amati da Lui.

È questa la prima buona notizia che Gesù ha annunciato al mondo.

Non è l’elogio della mediocrità, ma l’elogio della vulnerabilità.

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