Pregare non è dire le preghiere – Commento al vangelo della XXIX domenica del tempo ordinario

Gesù sta andando a Gerusalemme e ha appena preannunciato ai suoi discepoli e alle sue discepole tempi duri (Lc 17, 22-37).

È in queste circostanze che racconta la parabola del giudice e della vedova.

L’evangelista ci informa che si tratta di una storia narrata affinché i suoi e le sue capiscano la «necessità di pregare sempre».

La parabola, infatti, parla di una vedova che si rivolge ripetutamente a un giudice per avere giustizia. Inizialmente lui non le dà retta, ma poi – per evitare di essere scocciato ulteriormente – fa quanto da lei richiesto.

La preghiera insistente della vedova fa dunque da pendant con la necessità di pregare sempre, tant’è che Gesù conclude la storia dicendo: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente».

Sembrerebbe un vangelo semplice e lineare: è necessario pregare sempre, soprattutto nei momenti difficili, così che Dio possa intervenire a nostro favore.

In realtà, la semplicità e linearità che avvertiamo è figlia dell’educazione che abbiamo ricevuto, secondo la quale è del tutto normale essere invitati a pregare e a sperare che Dio ci esaudisca.

Solo che noi sappiamo che non è vero.

Quante storie abbiamo conosciuto (magari anche sulla nostra pelle) in cui le preghiere non sono state esaudite, il tale non è guarito, la tal altra non è riuscita ad avere figli, la guerra non è finita, ecc…?

Qualcuno/a potrebbe obiettare: “Sì, ma in alcuni casi il miracolo c’è stato?”.

Ma che dio è un dio che esaudisce solo alcuni/e dei suoi figli / delle sue figlie?

Beh – si dice – perché la volontà di dio è imperscrutabile…

Ma queste risposte a me non sono mai piaciute: mi paiono un tentativo (non richiesto) di difendere un dio che non è quello che emerge dal vangelo.

E allora?

Allora io credo che dovremmo fare la fatica di uscire dalla mentalità che ci ha consegnato la nostra educazione e provare a tornare a farci delle domande: stiamo davvero capendo il senso del testo o lo abbiamo semplicemente disattivato, reso innocuo?

La prima domanda da porsi è cosa si intenda con la necessità di pregare sempre. Anzi, più radicalmente ancora, cosa si intenda con “pregare”.

Se “pregare” è “dire le preghiere”, supplicare un’entità più potente di noi… tutto fila.

Ma se “pregare” fosse altro?

Torniamo al vangelo: come prega Gesù? Recita le preghiere? No. Supplica? Sì, ma non viene esaudito.

La preghiera di Gesù è stato altro: la preghiera è la relazione che ha mantenuto per tutta la vita col Padre. Ci sono stati momenti in cui si è rivolto a Lui con le parole, momenti in cui si è ritirato in disparte per intessere con Lui un dialogo interiore e capire quale passo porre, momenti in cui la relazione è rimasta implicita ma determinante per scegliere chi essere, come comportarsi…

In poche parole, la preghiera di Gesù è stato un pensarsi sempre in relazione con Dio (esplicitamente e implicitamente).

Se questa è la preghiera, cambia anche il senso della necessità di pregare sempre.

Incessante non deve essere il dire preghiere o il supplicare, ma il vivere quella relazione, il pensarsi in quella relazione.

Lì Dio lo troveremo sempre, risponderà sempre, farà sempre giustizia: cioè sarà sempre disponibile a mantenersi in relazione con noi e ad aiutarci a porre il passo giusto.

Così acquista senso anche l’ultima domanda di Gesù («Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»): troverà uomini e donne che vivono della relazione con lui? O troverà persone che ripetono formulette per dovere, paura o bisogno?

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