Trasfigurazione (commento)

In questa seconda domenica di quaresima, come di consueto, la liturgia ci invita a riflettere sulla trasfigurazione.

Si tratta di un episodio piuttosto enigmatico, che però possiamo annoverare tra le ripetute volte in cui Gesù si ritira in disparte per pregare. Stavolta non lo fa in solitudine, ma portando con sé Pietro, Giacomo e Giovanni.

In questa occasione accade qualcosa che – nelle altre ricorrenze – non è narrato: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce».

Se proviamo a uscire dalla materialità della descrizione, possiamo provare a intendere ciò che sta succedendo: in quali occasioni abbiamo visto il volto di qualcuno “brillare come il sole”? Quando qualcuno ci è apparso così splendente che addirittura i suoi abiti sembravano trasmettere luminosità?

Nella mia esperienza, è capitato tutte quelle volte che ho visto qualcuno felice.

Stando al racconto, ciò che suscita questa trasformazione in Gesù, ciò che lo riempie di felicità, è lo stare in disparte, in compagnia di Dio, con il quale dialoga confrontandosi con la sua Legge (Mosè) e la sua parola profetica (Elia).

Gesù non dice preghiere, ma prega, cioè entra in relazione, “conversa” dice il testo italiano.

Eppure questa sua intimità con Dio, che lo rende felice, lo ricolloca interiormente e lo “riassetta” per affrontare la vita (e la morte), non viene compresa dai suoi discepoli, nemmeno dai tre più vicini, tanto che – per bocca del più eminente tra loro – dicono qualcosa di inopportuno: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».

L’inadeguatezza dell’intervento di Pietro è evidente, soprattutto per il fatto che non riceve nessuna risposta (le sue parole cadono nel vuoto) e per il fatto che mentre «stava ancora parlando» qualcun altro prende la parola (mettendo a tacere la sua chiacchiera): «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

Mi viene da pensare che più che un invito ai discepoli, questa frase sia la conclusione del “conversare” di Gesù col Padre, quasi una risposta del Padre a Gesù, che – ritiratosi in disparte – gli aveva chiesto udienza, o compagnia, o un confronto.

Ebbene, la parola conclusiva di Dio è “Sei il mio figlio amato, non vacillare”.

Come se Dio parlasse alla nuora (i discepoli) per far capire alla suocera (Gesù stesso): si tratta, infatti, della conferma della missione di Gesù, già annunciata al battesimo: “Se anche la strada che stai percorrendo ti pare inaspettata (all’orizzonte c’è la croce), è proprio la via giusta”.

E che Gesù esca riconfermato da questo dialogo è chiaro dalla tenerezza con cui raccoglie i cuori spauriti dei suoi: «Li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».

Solo chi ha l’animo saldo è capace di tenerezza e non si lascia andare a reazioni infastidite.

La cosa interessante, per noi, è che quello spazio di dialogo, di conversazione, di preghiera (che non è dire le preghiere), di intimità e compagnia con Dio è aperto a tutti e a tutte.

Non si tratta di un privilegio di Gesù, ma è esattamente la nuova relazione possibile con Dio che egli è venuto a rivelare: è questa la buona notizia di cui egli è il portavoce.

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1 commento

  1. Brava! Una interpretazione adatta a credenti del nostro tempo, scevra di formulazioni mitiche che oggi sarebbero incomprensibili.

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