VI Domenica del tempo ordinario (commento)

Siamo ancora nel primo capitolo dell’evangelista Marco.

Il brano narrato segue immediatamente quello della settimana scorsa e ci presenta l’incontro di Gesù con un lebbroso che va da lui, supplicandolo in ginocchio, per dirgli: «Se vuoi, puoi purificarmi!».

La lebbra di cui si parla nel testo (e in generale nella Bibbia) non è la malattia oggi denominata “malattia di Hansen”, ma era genericamente il termine usato per indicare le malattie che avevano delle manifestazioni cutanee.

Dato che molto di esse erano contagiose, il popolo ebraico aveva una normativa molto stringente a riguardo, che prevedeva l’esclusione dalla vita sociale. Chi fosse interessato a un approfondimento può andare a leggere i capitoli 13 e 14 del Libro del Levitico.

L’avvicinarsi del lebbroso a Gesù e il suo parlargli era un atto fuori legge.

La reazione di Gesù, tuttavia, non è di paura, di fuga o di denuncia (tutte reazioni che sarebbero state considerate non solo legittime, ma doverose).

Egli, piuttosto, come dice il testo «ebbe compassione».

Ci sono molti modi eruditi per spiegare questo termine di origine greca, ma – forse – bastano parole più semplici e vicine a quello che sicuramente tutti/e noi abbiamo provato: “gli dispiaceva per lui”.

Non si tratta, però, di un semplice dispiacere che resta lì inerte…

Il coinvolgimento di Gesù nella disperazione altrui è tale che quel “dispiacersi” diventa azione, azione proibita: «Tese la mano, lo toccò», rendendosi impuro, a sua volta.

L’empatia con la situazione dell’altro, lo porta non solo a coinvolgersi emotivamente, ma a compromettersi fattualmente.

Mi pare che questo episodio possa, in qualche modo, riassumere l’intera vicenda storica di Gesù: in lui, Dio si è coinvolto così tanto con il dolore di noi esseri umani, da compromettersi con noi.

Si è fatto uomo.

Si è fatto lebbroso.

Si è fatto impuro.

Si è messo nei nostri panni, qualsiasi siano i panni nostri.

Questo suo farsi come noi, però, non è solo solidarietà nel dolore.

Proprio come nella sua parabola esistenziale, anche in questa vicenda, la sua assunzione della nostra condizione è salvifica: «Lo voglio, sii purificato!».

Questa espressione è bellissima perché mostra le intenzioni di Gesù (e, in lui di Dio): egli vuole liberarci dal male, restituirci alla vita, alla vita piena.

Perché allora l’imposizione del silenzio («Guarda di non dire niente a nessuno»)?

Forse perché Gesù non voleva essere identificato come “colui che aveva toccato un lebbroso” ed essere costretto a stare lontano dai paesi e dalle città per il periodo di purificazione (come, in effetti, pare essere avvenuto: «Quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti»); oppure perché temeva che la fama potesse essere un ostacolo alla sua missione (sarebbero accorsi da lui come da un guaritore, come, in effetti, pare essere avvenuto: «Venivano a lui da ogni parte»).

Indubbiamente entrambi questi aspetti, soprattutto il secondo, possono aver giocato in quello che viene chiamato il “segreto messianico”, e cioè il fatto che più volte Gesù abbia imposto il silenzio alle persone che aveva guarito, per il timore che la sua identità (e dunque la sua rivelazione sul volto di Dio) potesse essere fraintesa.

Tutto ciò per dire che anche noi, che leggiamo questo testo oggi, non dobbiamo fare l’errore di risolvere semplicisticamente la questione nel “Gesù guariva i malati”, ma entrare più in profondità nella dinamica d’incontro che lui ha proposto, perché è quella che continua a proporre anche a noi.

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