XXV Domenica del tempo ordinario (commento) – La mia parabola preferita

Quella di questa domenica è la mia parabola preferita, perché è una di quelle pagine del vangelo che impedisce di “normalizzare” l’insegnamento di Gesù e incasellarlo in uno schema semplicistico e scontato.

Spesso infatti sia i credenti che i non credenti hanno un’idea molto riduttiva e del tutto disinnescata della proposta evangelica, come se si trattasse di un insieme di indicazioni di buon senso, di superficiale buonismo o bonario paternalismo (“comportati bene”, “stai lontano dai guai”, “i buoni verranno premiati, i cattivi puniti”…), per le quali – viene da chiedersi – c’era proprio bisogno di Gesù? Se si trattasse solo di questa morale spicciola, insegnata bene o male in tutte le case e le scuole, sarebbe stato necessario morire su una croce? Una nonna saggia, credo, sarebbe bastata…

Il vangelo è altro: è una bomba che esplode all’interno della cultura ebraica della Palestina di 2000 anni fa e che – per chi ha voglia di ascoltarlo – esplode in qualsiasi epoca e a qualsiasi latitudine. È per questo che Gesù è stato ucciso: non perché ha dato consigli di buona morale, ma perché ha sovvertito l’idea di chi è Dio e di qual è la sua relazione con gli umani e, così facendo, ha proposto un mondo nuovo: un modo nuovo di stare al mondo, di costruire rapporti, di guardarsi, di pensarsi.

E la parabola di oggi è un esempio clamoroso di questa detonazione.

C’è un padrone con una vigna che esce per prendere lavoratori a giornata. Va in piazza a cercarli per ben 5 volte, lungo il corso della giornata: all’alba, alle 9.00, a mezzogiorno, alle 3 del pomeriggio e alle 5 di sera.

Per la paga, fa un accordo esplicito solo con quelli della prima ora: 1 denaro per 1 giornata di lavoro. Al secondo gruppo dice solo: «Quello che è giusto ve lo darò»; agli altri non dice nulla.

La chiave di volta della storia sta nella costruzione della scena del pagamento: «Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”».

Il padrone chiede esplicitamente che vengano pagati prima gli ultimi, andando contro ogni logica: innanzitutto perché chi era lì dall’alba, forse, era più stanco e sarebbe stato ragionevole che venisse pagato prima e potesse così andare a casa; in secondo luogo, se avesse pagato prima loro, non si sarebbe esposto alle critiche successive. Nessuno avrebbe visto che primi e ultimi venivano pagati uguali e tutti sarebbero andati a casa felici e contenti.

Ma il punto è proprio questo: la parabola serve per creare scandalo, cioè – letteralmente – per far inciampare il pensiero, contraddire la logica (è una bomba che esplode, non è una minestrina per mett a post a’ stomec = mettere a posto lo stomaco). Gesù appositamente – nel raccontare – costruisce così la scena: gli ultimi vengono pagati per primi, perché i primi vedano che gli ultimi sono pagati tanto quanto loro… e reagiscano.

E infatti: «Mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”».

È a questo punto che anche noi dobbiamo sentirci interpellati: la parabola ci porta a solidarizzare con questi primi lavoratori. In effetti, hanno ragione: hanno lavorato di più, dovrebbero guadagnare di più.

D’altra parte è anche giusto ricordare che il padrone non è stato scorretto con loro: quanto gli aveva promesso, gliel’ha dato (1 denaro per 1 giornata di lavoro). Non li ha “fregati” («Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene»).

Eppure si rimane con l’amaro in bocca: certo, ha rispettato i patti, però…

È qui che – dalla storia – Gesù chiede di passare alla realtà: «Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». In questa frase, infatti, Gesù lascia trapelare che non sta più riferendosi solo al personaggio della parabola chiamato “padrone”: quel padrone rappresenta – nella realtà – Dio stesso. Questo è il punto: Dio è come questo padrone. È un buono che fa delle sue cose quello che vuole, non facendosi vincolare dal criterio del merito. Dio non dà (non ama) in base al merito. Questo è ciò che dice la parabola. E questa è la detonazione che esplode in ogni cultura, per chi la vuole ascoltare. Perché a questo punto è chiaro che tutta la morale e le relazioni (con Dio e fra di noi) basate sul meritarsi il bene, meritarsi il paradiso, non hanno alcun fondamento evangelico.

E questa proprio non è una minestrina che mett a post a’ stomec.

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1 commento

  1. Grazie Chiara per il tempo che dedichi a farci sentire accolti in ogni nostra debolezza dal Padre. E’ rilassante ed incoraggiante al tempo stesso e ti fa pensare che in qualsiasi momento c’è ancora la possibilità di lavorare per il padrone della vigna, anche se fino a prima si è fatto tutt’altro!

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