Commemorazione dei defunti (commento)

Il 2 di novembre è il giorno nel quale la Chiesa celebra la commemorazione di tutti i defunti (e di tutte le defunte) e – cadendo quest’anno di domenica – sostituisce la liturgia della XXXI domenica del tempo ordinario.

Il “giorno dei morti” (e delle morte) ha un immediato significato caro a ognuno/a di noi: fare memoria nella preghiera delle persone care che non ci sono più e – con esse – anche di tutte le altre, in particolare quelle per cui più nessuno/a ha un ricordo.

Su questa prima dimensione della ricorrenza non mi sembra necessario spendere troppe parole, dato che tutti e tutte noi portiamo nel cuore la ferita legata a qualcuno/a che ci ha lasciati/e.

È forse uno degli aspetti in cui noi esseri umani possiamo davvero sentirci in comunione con gli altri.

Vi è, tuttavia, un’altra prospettiva che la commemorazione di questa settimana può mettere in luce ed è quella che mi ha portato a scegliere proprio questo vangelo.

Le messe che si possono celebrare in questa occasione, infatti, sono tre, con tre vangeli diversi.

Io ho scelto quello della seconda messa, perché più degli altri mostra come il discorso sulla morte altrui sia sempre anche un’evocazione (un’anticipazione) della nostra propria morte.

Celebrare il ricordo dei defunti e delle defunte, inevitabilmente, ci ricorda che anche noi siamo mortali, anche noi prima o poi vivremo la nostra morte e passeremo dalla parte di quelli/e per cui pregare.

Da questo punto di vista, il celebre passo di Matteo che parla della separazione di “pecore e capre” mi è sembrato un ottimo punto di partenza.

Innanzitutto, a scanso di equivoci, è necessario precisare che questo brano è contenuto in una sezione più ampia (i capitoli 24-25 di Matteo) denominata “discorso escatologico”.

In questi capitoli, l’evangelista raduna le parole di Gesù sulle “cose ultime”.

È inaugurato dall’affermazione di Gesù stesso «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta», a cui segue la domanda dei discepoli: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».

Da lì in avanti – per due interi capitoli – Gesù parla attraverso un linguaggio particolare (il linguaggio apocalittico), caratterizzato da immagini, parabole, simboli tramite i quali – come sempre – vuole proporre un messaggio teologico (dire qualcosa su chi è Dio) e antropologico (dire qualcosa su chi è l’essere umano).

Il nostro brano arriva alla fine, dopo la parabola delle dieci vergini e quella dei talenti.

Questo per dire che anche le parole del vangelo odierno non vanno prese alla lettera, ma vanno interpretate per capire cosa ci dicono di Dio e cosa ci dicono dell’essere umano.

Il cuore del testo è costituito dalle parole «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (e dal loro contrario).

Cosa ci dice tutto ciò di Dio?

A mio giudizio, ci dice che – alla fine – ciò che conta davvero per Dio è la cura che gli umani hanno gli uni per gli altri, quella compassione, quel moto del cuore per chi ha bisogno.

Cosa ci dice, invece, degli esseri umani?

Ci dice che, pensando – come la commemorazione odierna inevitabilmente ci spinge a fare – alla nostra fine, ciò che conterà davvero per essere diventati/e uomini e donne secondo il cuore di Dio (che dovrebbe essere la tensione che anima tutta la vita dei cristiani e delle cristiane) è se abbiamo dato da mangiare a chi aveva fame, da bere a chi aveva sete, accoglienza a chi era straniero/a, abiti a chi era nudo/a, amorevolezza a che era malato/a, compagnia a chi aveva perso la libertà…

La seconda dimensione a cui la commemorazione dei defunti e delle defunte ci apre – oltre alla prima legata alla memoria di chi non c’è più – è, dunque, quella di provare a immaginarci dalla fine, a guardare alla nostra vita pensandoci morti/e: come avremmo voluto (da quel punto di vista) aver trascorso la nostra esistenza?

Perché – dato che siamo ancora vivi/e – possiamo davvero adoperarci a scrivere l’esistenza che vorremmo aver vissuto guardando dalla fine.

Che persona vorrei essere diventata quando sarò sul letto di morte?

Bene… da oggi, cercherò di diventare quella persona!

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