Amati perché cambiati o cambiati perché amati? (commento al vangelo della XXXI domenica del tempo ordinario)

Settimana scorsa, leggendo la parabola del pubblicano e del fariseo che pregano al tempio, abbiamo avuto modo di chiarire chi erano i pubblicani.

Oggi, ne incontriamo uno: Zaccheo.

La sua storia è molto nota e ha edificato generazioni e generazioni di cristiani, circa il pentimento e la necessità di “riparare” il danno inferto agli altri con la propria condotta.

Ciò che, però, più di ogni altra cosa mi pare interessante è cercare di capire cosa sia questa “conversione”, come si origini e cosa produca.

Infatti, lo schemino solitamente divulgato “peccato – pentimento – riparazione del danno – perdono” mi pare piuttosto riduttivo.

Innanzitutto, prima che essere un peccatore, Zaccheo è un essere umano (e questo dovremmo ricordarlo di ogni persona che abbiamo davanti, soprattutto quando siamo allo specchio e la persona in questione siamo noi stessi, verso i quali siamo sempre pieni di recriminazioni e sensi di colpa).

In secondo luogo, Zaccheo (come ciascuno di noi) è, indubbiamente, un peccatore, ma … (altra cosa da tenere sempre a mente) non è solo quello: nessuno/a è solo il suo peccato.

Terza cosa… non è vero che Zaccheo prima si pente e poi incontra Gesù… anzi, è proprio vero il contrario: quando Zaccheo è ancora un peccatore, Gesù decide di andare a casa sua.

Sta qui la chiave di volta…

Noi siamo abituati a pensare di poter incontrare il Signore, solo dopo la nostra conversione, mentre il vangelo ci insegna che ci convertiamo perché il Signore ci ha incontrato. Cioè, non è vero – come purtroppo ancora molti insegnano – che per ottenere l’amore di Dio dobbiamo convertirci; è vero, piuttosto, che proprio perché Dio ci ama, allora possiamo convertirci.

Tra l’altro questa è un’evidenza per tutte le persone che hanno avuto a che fare con dei bambini: è il sentirsi amati che insegna loro ad amare; non il sentirsi colpevolizzati.

Certo, Zaccheo è interessato a Gesù, vuole vederlo… ma è quest’ultimo a creare la relazione: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”».

Non aspetta che quello abbia dato la metà di quello che possiede ai poveri e restituito quattro volte tanto a coloro che aveva frodato. Mostra interesse per lui quand’egli ancora non ha nessuna intenzione in proposito. Tant’è che subito, chi assiste alla scena, commenta: «È entrato in casa di un peccatore!».

La proposta di relazione ai peccatori è un classico di Gesù e un aspetto del suo modo di essere che gli ha sempre creato problemi (come con la donna peccatrice in casa del fariseo, cfr. Lc 7, 36-50).

Forse, se anche la Chiesa si comportasse come Gesù con i peccatori e le peccatrici, avremmo meno persone traumatizzate dalla colpevolizzazione e più esseri umani che si aprono alla conversione.

Ma anche su quest’ultimo punto vorrei fare una precisazione…

Cosa vuol dire “convertirsi”?

Zaccheo non ha smesso di fare il pubblicano (questo almeno non emerge dal testo): ciò che Zaccheo fa, dopo essere stato guardato da Gesù, dopo aver ricevuto la sua simpatia, il suo affetto e la sua compagnia, è rilanciare gratuitamente il bene ricevuto gratuitamente.

Se la conversione che ci aspettiamo da coloro che riteniamo peccatori è che diventino come noi vorremmo che fossero, forse siamo fuori strada: il percorso che vediamo nella storia di Gesù e Zaccheo è che una persona accolta / amata come persona, si riconosce come persona accolta / amata e inizia ad agire da persona accogliente / amante della vita e dei suoi simili.

Ecco perché la Chiesa dovrebbe proporre relazioni accoglienti con tutti/e: non perché “allora va bene qualsiasi cosa”, come dicono alcuni, ma perché la sua missione è testimoniare un amore che prescinde dal peccato, che è gratis e, quando arriva, dilata interiormente, non fa chiudere.

La Chiesa, quindi, a mio modesto parere, dovrebbe proporre relazioni accoglienti a tutti/e, non in maniera strumentale (così poi li fa diventare come lei vuole che siano), ma per essere segno della possibilità per tutti/e di essere raggiunti da un amore che (non cambiando necessariamente ciò che si è) apre nuovi orizzonti, fa guardare alla vita in modo nuovo, riconsegna lo statuto di “persona amata” e dunque capace di amare che a ogni essere umano dovrebbe essere riconosciuto.

E che poi ognuno se la giochi come la creatività dello Spirito gli suggerisce.

Il problema è che, a volte, questa esperienza di essere amati a prescindere, di essere benvoluti comunque e di essere guardati da Dio come figli/e non l’abbiamo fatta neppure noi cristiani, sempre troppo impegnati a mostrarci inappuntabili, nel giusto e grati per non essere «come gli altri». È questo atteggiamento che ci impedisce, a noi per primi, di farci toccare dall’amore del Signore e imparare così ad allargare gli orizzonti, a dilatare la nostra umanità, a sperimentare nuovi modi di essere Chiesa.

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1 commento

  1. Come sempre, grazie x questa vera profondità del Vangelo e dell’umanità!

    Quanto abbiamo bisogno di riscoprirci sempre amati così come siamo, nn perché bravi/buoni,/inappuntabili/convertiti….

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