III Domenica di quaresima (commento) – Ma si danno i soldi per le messe dei morti?

Il brano di vangelo che la liturgia ci propone per questa terza domenica di quaresima è tratto dal vangelo di Giovanni e racconta l’episodio di Gesù al Tempio di Gerusalemme che rovescia i banchi dei cambiamonete.

È un evento raccontato in tutti i vangeli, ma – data la diversa struttura che il quarto evangelista dà al suo scritto – la collocazione è differente.

Marco, Matteo e Luca, infatti, narrano la vita pubblica di Gesù, organizzando il materiale che hanno a disposizione tra una prima parte del vangelo che si svolge in Galilea e poi la seconda (e ultima) che si svolge a Gerusalemme.

Giovanni invece “fa andare e venire” Gesù dalla Giudea alla Galilea più volte nel corso del vangelo: il quarto evangelista infatti fa spostare Gesù a Gerusalemme in occasione delle varie feste del calendario ebraico.

Ecco perché l’episodio del Tempio nei sinottici è collocato alla fine della vita di Gesù, quando manca poco alla sua passione, morte e risurrezione; mentre in Giovanni è raccontato all’inizio, al capitolo 2, quando, in occasione della Pasqua dei Giudei, «Gesù salì a Gerusalemme».

Inoltre, mentre Marco, Matteo e Luca fanno ruotare gli eventi intorno alla contrapposizione tra “casa di preghiera” e “covo di ladri” («La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni, voi invece ne avete fatto un covo di ladri» Mc 11,17; cfr. anche Mt 21,13 e Lc 19,46), Giovanni utilizza un’espressione diversa (seppur simile): «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».

Quali conclusioni possiamo trarre da queste osservazioni sulla collocazione dell’episodio e sulla sfumatura delle parole messe in bocca a Gesù per stigmatizzare ciò che avveniva al Tempio?

Innanzitutto, rispetto alla collocazione, è evidente che tutti e quattro gli evangelisti sentono il bisogno di narrare questo evento. Non tutti gli episodi del vangelo sono narrati in tutti e quattro i vangeli: questo sì. Ciò significa – da un lato – che è uno di quei fatti che gli evangelisti non potevano non raccontare (più testimonianze abbiamo su un medesimo evento e più è probabile che esso sia accaduto realmente); dall’altro significa che è uno di quei fatti che tutti gli evangelisti hanno ritenuto di dover raccontare, perché centrale per capire chi fosse Gesù.

Al di là dell’organizzazione del materiale (messo all’inizio o messo alla fine del testo), ciò che conta è infatti che questo episodio, comunque, lo si è voluto inserire.

In secondo luogo, rispetto alla scelta delle parole da usare per raccontarlo, è indubbio che tutti e quattro gli evangelisti vogliano rilevare il fastidio che Gesù provava per la relazione che il potere sacerdotale giudaico aveva instaurato tra religione ed economia, religione e guadagno, religione e speculazione.

Mentre però l’accento dei sinottici è più legato alle ruberie («ne avete fatto un covo di ladri»), cioè alle frodi e agli inganni (alle speculazioni) che i sacerdoti e tutto l’apparato commerciale sviluppatosi intorno al luogo sacro attuavano nei confronti della povera gente che affluiva a Gerusalemme in buona fede, per compiere quello che riteneva essere il suo dovere religioso, il vangelo di Giovanni è più radicale, arrivando a stigmatizzare non solo l’eccesso, la ruberia appunto, ma il fatto stesso che la fede potesse avere a che fare con il mercato, che essa cioè potesse essere mercificata, avere una trasposizione in valore monetario.

Il problema di fondo è se nel rapporto con Dio ha senso che entri la mediazione del denaro.

No, ci verrebbe da dire immediatamente!

Ma allora vi faccio qualche domanda: perché “pagate” le messe che fate dire per i morti? Perché se un prete o qualche comunità vi dice che i vostri morti verranno ricordati senza bisogno di pagare niente, una vocina dentro di voi pensa “Varrà lo stesso?”?

Più radicalmente ancora (andando anche al di là dei soldi): perché una parte di noi continua a ritenere che in qualche modo Dio vada pagato (o ripagato) con i nostri sacrifici, i nostri sforzi, le nostre buone opere? Perché con Dio siamo sempre lì a mercanteggiare su meriti e colpe e a chiederci “Avrò compensato abbastanza il debito che ho acquisito con i miei peccati?”?.

Questo tipo di relazione con Dio è quella che “fa fastidio” (come dicono i bambini) a Gesù, anzi, è ciò che lo fa proprio infuriare, perché significa che non abbiamo capito niente di Dio e di quello che lui è venuto a rivelarci.

Questo atteggiamento infatti – in ultima analisi – è figlio della paura che noi continuiamo ad avere di Lui e quindi alla poca fede che riponiamo nella buona notizia di Gesù: che Dio è solo buono (anche con i cattivi, anzi soprattutto con chi non se lo merita). Perché Dio assomiglia più a una mamma che vuole bene a tutti i suoi figli e in particolare ai più disgraziati, che a una professoressa che dà i voti in base al merito.

Ma noi continuiamo a non esserne persuasi fino in fondo e, quindi, “per sicurezza”, i soldi al prete per la messa dei morti li diamo.

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