Segni deboli – Commento al vangelo del Battesimo del Signore

Terminate le festività natalizie, domenica comincia il tempo ordinario, che ci porterà a riflettere sulla vita pubblica di Gesù, quest’anno al seguito dell’evangelista Matteo.

L’esordio riguarda il battesimo al Giordano, che il primo evangelista (in ordine canonico e non cronologico) narra in una maniera peculiare.

Tra le righe, infatti, in lui più che altrove, emerge l’esigenza di narrare l’episodio in maniera tale che sia chiara la supremazia di Gesù sul Battista.

La vicenda, infatti, inizia in questo modo: «Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo».

E perché mai il Battista vuole impedire a Gesù di essere battezzato?

Perché, dice: «“Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?”. Ma Gesù gli rispose: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”. Allora egli lo lasciò fare».

Questo scambio di battute, che gli altri evangelisti non riportano, segnala un preoccupazione propria di Matteo.

A tal proposito è utile ricordare che quest’ultimo scriveva per una comunità cristiana di origine giudaica, la quale avvertiva ancora l’eco della rivalità tra i discepoli di Gesù e quelli del Battista stesso (che ritenevano Giovanni più importante di Gesù).

Ecco perché, fin da subito, Matteo sente il bisogno di chiarire la subalternità di Giovanni.

Il battesimo, infatti, era uno di quegli episodi che più di tutti potevano ingenerare dubbi sull’identità messianica di Gesù (ma perché si è fatto battezzare?) e sulla sua “superiorità” rispetto al Battista (come può essere più “grande” Gesù se è stato lui a farsi battezzare da Giovanni e non viceversa?).

Matteo, dunque, insiste sul chiarimento dei rispettivi ruoli: Giovanni avrebbe dovuto/voluto farsi battezzare da Gesù, ma avendogli chiesto Gesù stesso di procedere in quel modo, Giovanni si sarebbe adeguato, obbediente.

Com’è, come non è, sta di fatto che la vicenda da narrare, per quanto scomoda e accomodata, è che è stato Gesù a essere battezzato da Giovanni.

Il resto della narrazione è pressoché in linea con quanto tramandato dagli altri sinottici: «Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”».

La cosa più interessante, a mio parere, è che già in questa apertura della vita pubblica di Gesù, si nota una tensione tra l’identità di Gesù e la fatica ad accettarla dei suoi / delle sue discepoli/e (noi compresi/e): noi, come Matteo, avremmo di gran lunga preferito che l’esordio della vita pubblica di Gesù fosse il suo battezzare (e dunque segnare una superiorià rispetto a) Giovanni Battista.

Sarebbe stato tutto, da subito, più chiaro.

Così come sarebbe stato tutto più chiaro se Gesù fosse sceso dalla croce e avesse dato pan per focaccia a Pilato, Caifa e compagnia cantante… o per lo meno se, dopo la risurrezione, fosse andato a fargli una pernacchia, mostrandosi incontrovertibilmente vincitore.

Invece no.

Invece no!

La fede in lui non ha mai, in nessuna circostanza decisiva, un segno forte su cui basarsi: una certezza, un’evidenza, una dimostrazione.

Tutti i segni su cui possiamo ragionare prima di deciderci per accordargli la nostra fede sono segni deboli.

La presenza di Dio nella storia è debole, impercettibile, mai sicura.

Perché?

Forse, per rispondere, può essere utile pensare al contrario: a cosa significherebbe una fede imposta per dimostrazione (sarebbe ancora fede o qualcosa d’altro?); a cosa ci direbbe su Colui che si impone; a cosa saremmo noi; a cosa sarebbe il nostro rapporto con Lui…

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