XVIII Domenica del tempo ordinario (commento) – Di cosa viviamo?

Oggi vorrei soffermarmi su una frase del vangelo che spesso viene “aggirata” a causa della lettura che se ne è data in passato, che ce l’ha un po’ inimicata: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna».

L’interpretazione di mentalità preconciliare era quella per cui la vita nell’aldiqua era funzionale a guadagnarsi una vita nell’aldilà; una vita dunque ottenuta grazie all’accaparramento di meriti, una sorta di conquista (e non di dono), per la quale era necessario rinunciare a tutto ciò che “non dura”.

La vita cristiana veniva perciò spesso presentata e proposta come una vita di sacrificio, di disprezzo per i piaceri della carne, di stigmatizzazione del riso.

Inutile insistere su questa visione che tutti – più o meno – abbiamo incrociato negli anni della nostra formazione.

Inutile anche smontarla (un’altra volta), dato che più volte lo abbiamo fatto e che – in fin dei conti – basta leggere il vangelo per riconoscere quanto sia contraria al messaggio di Gesù.

Mi interessa di più, recuperare la frase di cui sopra («Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna»), perché – seppur divenuta baluardo di una visione che rifiutiamo – essa è comunque una frase centrale del vangelo di Giovanni, che, credo, meriti di essere riscattata.

Il rischio è infatti sempre quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca, come si suol dire.

«Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna»…

Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci, ma poi – vedendo che volevano farlo re – se ne è andato. Raggiunto dalla folla, assume lo stesso atteggiamento che aveva tenuto con il tentatore nel deserto: «Non di solo pane vivrà l’uomo».

Il punto è proprio questo: di cosa vive l’uomo? Di cosa vive ciascuno di noi?

È indubbio che ci sia un livello basico di sopravvivenza (cibo, acqua, sonno, vestiario, medicine…) che costituisce la precondizione per esistere (precondizione che nel III millennio l’umanità non è ancora riuscita a garantire a tutti), ma la vita è solo questo?

No, ovviamente.

Cos’è dunque che – al di là del livello base del sopravvivere – trasforma il mero stare al mondo in una vita di cui – alla fine – essere contenti?

Cos’è che dal nostro letto di morte, guarderemo con soddisfazione, tenerezza e con un sorriso?

Cos’è che rimarrà di noi?

È a questo che Gesù fa riferimento: il suo è un invito e un promemoria affinché le persone riempiano la loro esistenza di tutto ciò che la rende bella: la fiducia, l’impegno, la determinazione, la fedeltà a se stessi, le relazioni, l’amore.

Altro che un aldiqua rinunciatario…

Perché… come scrive Enzo Bianchi: «Le persone che comprimono i desideri, che sono diffidenti verso le cose materiali, in realtà sono persone umanamente povere», mentre quello che Gesù ha a cuore è che gli umani siano persone umanamente ricche…

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