XXIV Domenica del tempo ordinario (commento) – a proposito di perdono

Anche questa settimana la questione che il vangelo ci propone è quella del perdono del fratello che «commette colpe contro di me». Gesù – alla domanda di Pietro – che chiede «Quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette?», risponde «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».

Fino a qui – per quanto a noi risulti paradossale da vivere – il messaggio è chiaro, non ha bisogno di commenti.

Gesù però prolunga la sua risposta raccontando una parabola, che, invece, un po’ complica le cose.

«Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi»… L’esito di questo “regolamento di conti” è che «Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito».

Quel servo però non fa sua la logica del padrone e a chi lo implora con le parole da lui stesso pronunciate poco prima, risponde con durezza: «Lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito».

Questo comportamento suscita il dispiacere dei compagni e lo sdegno del padrone che – a quel punto – «lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto».

Il commento finale di Gesù è quello che forse ci lascia più spiazzati: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Lo “spiazzamento” è dovuto al fatto che questa sentenza finale suona un po’ come una minaccia: se non perdoni tuo fratello, Dio non perdonerà a te. Sembra quasi che Gesù voglia costringerci ad agire sotto ricatto.

Ma è davvero così?

Facciamo un passo indietro: ogni parabola è la risposta ad una domanda (esplicita o implicita) e contiene sempre uno “spiazzamento”.

La domanda qui è esplicita, è quella di Pietro, e riguarda il perdono, anzi, più precisamente, quanto un cristiano può perdonare per provare ad amare come Gesù.

Lo spiazzamento, invece, non è quello che proviamo noi sul commento finale. Il vero spiazzamento è la reazione del servo perdonato. Ciò che ci dovrebbe far saltare sulla sedia è il fatto che, mentre Gesù propone un modo di essere che non rilancia il male quando lo riceve, qui abbiamo in scena un personaggio (il servo non è una persona reale, è il personaggio di una storia che Gesù si è inventato per far capire qualcosa ai suoi interlocutori) che rilancia il male pur avendo ricevuto il bene, un immenso bene. Questo è il punto.

Ciò che Gesù vuol far passare raccontando questa parabola è la presa di coscienza che noi siamo quei servi che hanno ricevuto un bene immenso: il bene di Dio, il suo volerci bene, il suo guardarci bene, da sempre e per sempre.

Se ci ricordiamo di questo, cioè di chi siamo veramente, non può non spiazzarci il comportamento del servo. È come se Gesù dicesse a Pietro: “Tu sei come un servo che non aveva nessuna speranza di vita e sei stato raggiunto gratis da un bene che ti ha salvato la vita, che ti ha ridato la vita. E mi chiedi quanto devi perdonare agli altri? Non vorrai mica comportarti come il servo della storia…”.

Il punto è questo: non vorremo mica comportarci come il servo della storia?

Io credo che – se la risposta è sì – è perché non abbiamo preso sufficiente consapevolezza e non ci siamo dati il tempo e lo spazio interiori per gustare quel bene pre-veniente e gratis con cui il Signore ci ama.

Perdonare non può essere un “dovere morale” che ci viene estorto sotto minaccia o ricatto, ma rilanciare quel bene che noi stessi abbiamo ricevuto: questo è il regno.

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