I discepoli di Emmaus – commento al vangelo della III Domenica di Pasqua

Il vangelo della terza Domenica di Pasqua ci propone il racconto dei discepoli di Emmaus.

La narrazione ci informa che erano in cammino da Gerusalemme a Emmaus e che – mentre percorrevano questi 11 Km – parlavano tra loro di quanto era accaduto negli ultimi giorni, cioè della fine di Gesù.

Essi sono molto informati, perché, nel resoconto che fanno al “forestiero” che cammina con loro, riportano la dinamica del processo, la crocifissione e, anche, quanto avvenuto la mattina di Pasqua, quando alcune donne, recatesi alla tomba, non avevano trovato il corpo di Gesù, ma avevano avuto una visione di angeli. Sanno anche che alcuni altri discepoli sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne.

Tutto questo, però, non è bastato a farli rimanere a Gerusalemme.

Si vede che non hanno trovato sufficientemente affidabili le parole delle donne, né il sepolcro vuoto.

Non hanno, cioè, ritenuto credibile l’ipotesi della risurrezione di Gesù.

E ciò, forse, anche sull’onda della paura (restare a Gerusalemme poteva essere pericoloso per i discepoli di Gesù) e della disillusione, che traspare chiaramente dalle loro considerazioni: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute».

I due si trovano, pertanto, in una situazione molto simile a quella di Tommaso che abbiamo sentito nel vangelo della settimana scorsa: non riescono a fidarsi dell’esperienza altrui, dato che si tratta di un’esperienza inimmaginabile (vedere uno risorto dai morti). Probabilmente provano a normalizzarla ricorrendo a spiegazioni emotivo-psicologiche: le donne avranno avuto un’allucinazione; gli altri apostoli si saranno suggestionati; ecc…

Siamo, dunque, al medesimo punto della settimana scorsa: noi siamo i discepoli di Emmaus, quelli che l’esperienza di incontrare il risorto non l’hanno fatta.

L’evangelista Luca – allora – a suo modo, prova a fare la stessa cosa che abbiamo visto fare al vangelo di Giovanni la settimana scorsa: indicare la via perché gli assenti di allora possano accedere alla fede nella risurrezione oggi.

I due discepoli di Emmaus, infatti, lo riconobbero dopo un percorso fatto di vari passaggi, che sono quelli che a nostra volta siamo invitati a fare.

Innanzitutto è il Signore a farsi vicino («Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro»): la prima indicazione, dunque, potrebbe essere che più che cercare Dio, bisognerebbe avere la disposizione di lasciarsi trovare da Lui.

La seconda è che per entrare in relazione con Gesù è necessario raccontare la propria storia o perlomeno un pezzo significativo della propria storia, quel pezzetto che ci sta più a cuore… anche se ancora non si sa, non si è sicuri che sia proprio lui: perché non c’è modo di conoscere qualcun altro per davvero se non raccontarsi reciprocamente la propria storia (noi, infatti, siamo la nostra storia).

Non a caso, la terza indicazione è ascoltare, a nostra volta, la sua storia: la fede nella risurrezione ha, infatti, a che vedere con la lettura intelligente delle Sacre Scritture («Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui»).

Poi vi è la necessità di trascorrere del tempo insieme, di rimanere un po’ insieme. In questo caso l’iniziativa è nostra («Resta con noi»): è la nostra risposta libera al suo proporre la relazione, al suo farsi vicino.

Infine, la memoria dell’ultima cena, cioè del gesto che più di tutti è in grado di rendere il senso della sua persona. Non si tratta di ripetere un rito, ma di penetrare nel cuore della sua identità.

Solo quando ci si è conosciuti così intimamente si può decidere se Egli è affidabile oppure no, se la fede nella risurrezione sia credibile oppure no.

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